I Viaggi in van
Il mio primo van fu comprato da due ragazzi tedeschi dai capelli biondi nelle strade di Downtown Melbourne, in Australia. Un Nissan Vanette. Un macchinone bianco dall’aspetto anonimo, ma con l’interno perfettamente attrezzato. Una struttura in legno montata nel retro a formare un sedile, dei ripiani per riporvi oggetti d’uso e un letto. Alla notte bastava calare il pezzo di legno che da schienale del sedile di dietro si trasformava in un perfetto letto ad una piazza e mezzo. Il van costò 1500 dollari australiani. Più molti altri spesi lungo la via per varie ragioni. Tra cui l’aver schiantato il suo muso contro il retro di una Porsche Cayenne il giorno del mio compleanno, 25 Aprile 2009. Quel van mi ha portato fino alla punta della costa est australiana, al mio primo incontro con la foresta tropicale, in posti come Port Douglas, Cape Tribulation, Mission Beach. Luoghi vissuti da animali unici come i kassowaris, dalle lucertole lunghe due metri, dagli insetti più grandi che si possano immaginare. Da farfalle grandi come piatti piani. Poi ancora quel van un po’ scassato che la mattina non partiva mai, pigro, duro da convincere a svegliarsi, in cui pioveva dentro e andava coperto con un telo cerato, mi ha condotto fino al cuore del paese. Lungo il deserto ed il bush, dove convivono canguri e cammelli, finché d’un tratto non si erge improvvisamente Uluru, una ardente pietra rossa, sacra ai popoli nativi che hanno abitato questi territori durissimi per secoli. Infine verso nord. Tra le grandi foreste e i fiumi del Northern Australia. Fino ai coccodrilli di Darwin.
Il mio secondo van è stato invece un GMC Safari. Rosso Bordeaux. Più una macchina che un vero e proprio van. Ci si potevano sedere fino ad otto persone legalmente, in realtà ci siamo stato anche in 12. Due file da tre posti dietro e due sedili davanti. Eravamo quattro proprietari, e le notti che non offrivano occasioni migliori e dovevamo dormirci dentro era un po’ come giocare a Tetris. Uno dormiva disteso nell’ultima fila. Il secondo sedile, quello di mezzo, era spinto indietro al massimo, così da far spazio tra questo e i sedili anteriori. Nei pochi centimetri così guadagnati in terra poteva dormire un altro. Quindi: uno nell’ultima fila, uno sul sedile di mezzo, uno in terra e uno al posto del passeggero. Unica cosa buona era che tutti i posti si equivalevano in scomodità, così che non c’era ragione di discutere o invidiare. Safari era stata comprata a Portland, in Oregon, per 1450 dollari americani. Era il finire di settembre, così che spesso quelle notti incastrati come sardine in scatola erano anche fredde e ventose. Safari ha poi visto varie composizioni dei suoi abitanti. In otto siamo stati dalla California fino al parco nazionale di Yosemite. In cinque fino ai parchi di Zion e Bryce in Utah, passando per il deserto del Nevada e i neon di Las Vegas. Quando allo scadere dei tre mesi di visto statunitense sembrava che la sua vita fosse giunta al termine abbiamo invece deciso di portarlo in Messico. Io già ero nel paese quando Safari è arrivata a prendermi carica di amici. Passando da San Diego e Tijuana verso Ensenada, la prima cittadina lungo la costa della Baja California. Poi varie problematiche di documenti hanno bloccato Safari agli stati del nord messicano. Confinata tra Baja California e Sonora. Io l’ho abbandonata di nuovo, arrivando fino al profondo sud del Nord America, in Oaxaca, al confine col Guatemala. Da un’amaca a poche decine di metri dal mare l’ho vista arrivare che era tarda notte. È stata l’ultima volta. Perché io su quell’amaca ci sono rimasto, mentre Safari è arrivata fino all’Atlantico. Per essere venduta a Tulum.
Ora c’è uno Chevrolet 350. Anche questo rosso bordeaux, ma nettamente più grande e potente di ogni altro in cui abbia viaggiato prima. Non è mio infatti, questa volta sono solo ospite di Dan che si prende estrema cura del suo bel van e con questo mi porta da un lato all’altro del paese. Da un Oceano ad un altro. Da un estremo ad un altro di un intero continente. Dalle Badlands è stata questione di pochi minuti ritrovarsi ai piedi del famoso Mount Rushmore. Lo scenario è cambiato totalmente. Siamo nelle Black Hills. Un isola di foresta e montagne. Gli alberi in maggioranza sono i pini Ponderosa. Mentre le montagne vanno ben oltre i duemila metri con grandi aree di granito scoperte a colorare le vette. Una zona propriamente collinare accoglie mandrie di bisonti dalla testa riccioluta e gigantesca, quando dopo una curva spuntano fuori le teste dei presidenti per un incredibile esibizione di arte naturale. Venti metri per testa. Tre metri per occhio. Quattro tra i principali presidenti della storia degli Stati Uniti: Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln. Glorificano la storia politica statunitense in un ambiente ideale. Proprio lungo la via percorsa dai turisti da est verso ovest e viceversa. Un punto equidistante dalle due coste e campo di battaglie contro i nativi Sioux. Lasciando da parte opinioni sulla politica e sulla sua propaganda, l’opera è bella e suggestiva. Esagerata e invasiva anche certamente, ma in questo è in stile con il soggetto.
Uscendo dal parco nazionale delle Black Hills si entra in Wyoming. Qui ricominciano le piane e le praterie. E si vedono i primi pozzi petroliferi.