Arrivo a Città del Messico, o come comunemente chiamata qui, al D.F., il Distrito Federal. La capitale. Si nota subito come l’aria sia cambiata, in senso metaforico e letterale visto il grado di inquinamento. Non però perchè ci siano particolari pericoli, come invece molti pensano, ma solo perchè davvero mi trovo di fronte a luoghi ben differenti. Intanto la mia valigia non è arrivata. Anche se questo è probabilmente per colpa o mia o de los gringos, cioè gli statunitensi. (La valigia arriverà poi il giorno dopo spedita a casa e col senno di poi è stato meglio così.)
All’uscita dall’aeroporto il prezzo dei taxi è chiaramente gonfiato e comunque il traffico della mattina di questo mostro di città da 26 milioni di abitanti renderebbe la spesa inutile ed il viaggio interminabile. Mi incammino quindi verso la più vicina stazione della metropolitana. Sono circa le sei di mattina quando lascio l’aeroporto. Più mi avvicino più cresce il numero di persone in movimento nella mia stessa direzione. Quando arrivo è come trovarsi al centro di un fiume straripato i cui affluenti non accennano a dar tregua. Una scena apocalittica che invece è nient’altro che quotidiana. Un delirio. Difficile quantificare, ma assiepati fuori dai cancelli chiusi per regolare il flusso di ingresso ci sono svariate migliaia di persone. La ragione di questo delirio è che non soltanto è l’ora di punta, ma inoltre perchè la metro da cui parto è anche una stazione degli autobus a cui arrivano moltissimi di coloro che devono raggiungere il centro città per lavoro. Quando riesco a raggiungere il binario comprendo che ci sarà da attendere. La salita sul treno è infatti in stile India. All’apertira delle porte ci si getta letteralmente dentro il vagone o su chiunque si trovi di fronte a noi. Le gomitate si sprecano e non sono il solo che si tira indietro e attende nei pochi centimetri lasciati calpestabili.
Si pensi che Mexico City è uno dei più grandi esperimenti sociali del pianeta. Circa 26 milioni di abitanti in un’area in cui starebbero stretti già la metà di questi. Una densità abitativa talmente impressionante che presumo un giorno verrà studiata per comprendere come affrontare i problemi causati dalla sovrappopolazione mondiale. La metropolitana è una delle più grandi al mondo e senza dubbio anche fra le più economiche: solo 5 pesos a tratta. Nemmeno 30 centesimi in Euro. Così che è relativamente accessibile a tutti. Un mondo sotterraneo fatto di tunnel e scalinate cosparse di persone, tacherie ultra economiche, farmacie naturiste ed anche pizzerie. Un mondo abitato da venditori di ogni cosa possibile che mai smettono di ripetere la loro offerta. Con una cantilena di ingredienti e prezzi che si posa nelle orecchie delle migliaia di passanti finchè una sporadica moneta non si palesa.
Infine il mio attendere prende una svolta quando in seguito al passare di un treno e di varie gomitate, un ragazzo estrae un cacciavite minacciando un altro viaggiatore evidentemente reo di un qualche non chiaro misfatto. Al grido di “Te mato!” a non più di due metri da me decido che è tempo di desistere. Uscire dalla stazione non è cosa facile. Devo andare contro al flusso di centinaia. Non c’è educazione e rispetto in questi casi e sarebbe un errore farvi affidamento. Esco e raggiungo un taxi. Su cui salgo normalmente. Però poi alla scena manca il suo classico seguito: cioè il taxi non si muove di un metro. Sto pagando per stare in un taxi fermo.
Dopo diverse decine di minuti di attese e scatti da Formula 1, con clacson suonato sempre e comunque, da tutti, arrivo. Ma non a destinazione. A metà strada. Il taxista, con cui ormai ho avuto tutto il tempo di entrare in grande intimità, mi consiglia di desistere per la seconda volta nel giro di un paio d’ore. Troppo il traffico ed il tassametro già ha superato i 100 pesos. Torno quindi alla metropolitana e aspetto con pazienza che il flusso di lavoratori e studenti, puntuali e ritardatari, si esaurisca. Finchè quasi lascio passare un vagone semi vuoto perchè preso di sorpresa.