Kashi, Benares, Varanasi e chi sa quanti altri nomi hanno cercato di raccogliere in una parola la più incredibile ed assurda città del mondo. Una città abitata ininterrottamente da 3000 anni in cui le tradizioni consolidatesi in tanto tempo vivono forti quanto millenni fa. La città del fiume sacro, il Gange, che è una Dea madre che menda le colpe. Una metropoli di un milione e mezzo di abitanti in cui sembra sempre di essere in un villaggio e che accoglie chiunque lo voglia, senza distinzione di religione o razza animale. Spesso offrendo un chai.
Per provare a raccontare Varanasi si deve procedere per gradi, cercando di dare sostanza ai suoi dettagli. Presa come insieme altro non è che un formicaio di individui di ogni sorta, obbligati alla vicinanza dall’abbondanza di corpi e dalle strette vie. Se si ha la forza, però, di andare oltre le dolorose immagini di povertà, la spazzatura e gli escrementi, questa città offre scorci che aprono gli occhi verso una tradizione ed un mondo unici.
Intanto l’intera città si estende su un solo lato del fiume. Per antichi motivi religiosi, o superstiziosi, sul lato est è vietato costruire. Si immagini quindi questo gigantesco fiume che si estende per chilometri e chilometri fin dalla sua origine sulle vette himalayane – Gangotri è il nome della sua fonte – che arrivando di fronte a Varanasi si estende in larghezza per centinaia di metri e il suo corso curva verso nord indirizzandosi verso il lontano Bangladesh, dove va ad esaurirsi, unendosi ad un altro fiume mitico, il Brahmaputra. Provenendo la luce della città solamente dal lato ovest del fiume, la vista notturna ricorda quella del mare. Molti arrivando di notte immaginerebbero l’orizzonte lontano, perso nel buio di fronte a loro, se non fosse nota a tutti la presenza del Gange. Questa illusione è aiutata anche da un altro dei dettagli di Varanasi, la sua luce.
Come per la maggior parte delle città indiane la polvere è ovunque ed è padrona dell’aria. Se per le strade della città questo diventa un fastidio costante, sulle scalinate che si affacciano al fiume la patina rossastra che dà densità all’aria dà al contempo colore alla luce. Così che tutto è rosa sui Ghat, appunto le grandi scalinate da cui i fedeli si affacciano al fiume e si preparano ai bagni. Osservando il lungo fiume dagli estremi della città i contorni dei palazzi sfumano nell’aria infiammata. Gettando l’occhio verso il principale dei forni crematori, Manikarnika, dove decine di corpi ogni giorno sono consumati sulle pire, incendiate dal primogenito maschio, sembra di assistere ad un assedio medievale, ad una città in fiamme.
Il fiume è considerato una via di uscita dal ciclo delle reincarnazioni (moksha). Morire a Varanasi, col proprio corpo cremato dal fuoco eterno di Shiva, che brucia da 3000 anni senza sosta protetto in un tempio lungo il fiume, e poi donato alla madre Ganga, è diverso che morire altrove. Per questo in un numero imprecisato ogni anno da millenni si recano sulla sua riva per le rituali immersioni ed infine a spendere gli ultimi giorni di vita. Dopo che la qualità del legno è stata scelta, in base alle possibilità economiche della famiglia (il legno di sandalo è il più caro), l’esatto numero di tronchi necessario è messo insieme e poi bruciato sulle gradinate. Le donne non sono ammesse per timore che il rito del suttee o Sati – la moglie si immola in suicidio d’onore sulla pira del marito – abbia possibilità di perpetrarsi. La tradizione vuole che solo in cinque casi dopo la morte non sia necessario essere purificati tramite il fuoco, ma semplicemente gettati in acqua o sepolti per preservare il corpo. Nel caso in cui si muoia per morso di serpente, in quanto animale caro a Shiva. In caso in cui la defunta sia incinta e quindi purificata dal feto che ancora è privo di colpe, o per la stessa ragione nel caso di bambini minori di 12 anni. Se la causa di morte è stata la lebbra, così da evitare di spargere tramite fumi e ceneri la piaga fra gli abitanti. Se si è baba o sadhu, quindi purificati da una vita di sacrificio.
Quello dei morti che in grande numero ogni giorno sono abbandonati alle acque certo non è un dettaglio da poco. Se consideriamo che chiunque viva nei pressi del fiume usa questo per ogni sua necessità: dal lavarsi mattina e sera, a lavare panni e stoviglie, rinfrescare le mandrie di bufali d’acqua, giocare con gli altri bambini e come enorme deposito rifiuti. Il fatto che questi eventi quotidiani si svolgano in un perenne contesto mistico, dove il fiume è divinità, e dove galleggiano i propri morti, può aiutare a dar forma all’idea che non ci si trova in un luogo qualsiasi.
Altro ingrediente del vivido misticismo di Varanasi è la scelta della fede sulla razionalità come principio per le scelte urbane. Si è già detto che un intero lato del fiume non è stato sviluppato, per via di molte leggende ma senza una vera ragione pratica. Cosa dire delle mucche che vivono fra i vicoli minuscoli? Presenze tanto simpatiche quanto minacciose e comunque di una scomodità ed effetto sull’igiene comune da non avere alcuna ragion d’essere. Sorprenderà che gran parte dei cittadini della città più sacra agli Hindu siano Musulmani? Non troppo, anche perché probabilmente si è intenti ad evitare enormi escrementi, a lasciar spazio a motorini e bufali tra i vicoli, o a tentare di ignorare le mille voci di venditori che ci seguono senza mai demordere. Fino alla più grande delle contraddizioni a mio dire, il fiume che è il cuore dell’intera città invece di essere rispettato nella sua pulizia è una delle acque più inquinate al mondo. Tanto da non avere ossigeno al suo interno ed essere luogo di morte per ogni pesce che vi si avventuri.
Al calar del sole i ritmi cittadini si abbassano e le grandi scalinate lungo il fiume si svuotano dei fedeli. Abitanti, baba e alcuni turisti si godono la quiete del tramonto e l’arrivo della sera. Il cielo si popola di aquiloni. Da ogni tetto o terrazza della città partono fili trasparenti, agli estremi un bambino assorto ed un rombo di carta colorata, fragile, fatta a mano con pochi stecchi. Tra questi rombi colorati volano gli avvoltoi in stormi. Volteggiano nel loro tipico roteante planare, come fossero piccioni quando sono enormi rapaci. Gli animali di Varanasi sono un ultimo dettaglio su cui vale la pena soffermarsi.
La notte su tutti è il loro regno. Dei cani specialmente che escono dalla letargia e si fanno la guerra, letteralmente, cacciandosi da un angolo all’altro dei vicoli. Come delle scimmie che raramente lasciano i tetti ed offrono sguardi di scherno ai quadrupedi d’abbasso. Questi massicci macachi si muovono di soppiatto da un palazzo all’altro, razziando dove possono e poi tornando alla relativa sicurezza di terrazze e balconi. Spesso se ne coglie un movimento tra le sfumature del campo visivo, ma sono già sparite, come ninja o spie, abilissime nell’arrampicarsi e coraggiose nei salti. Le mucche, i capretti, gli asini, i maiali, tutti hanno un posto. Solo i bufali, per l’immancabile latte fresco della mattina, appartengono a qualcuno e sono curati. Il resto della fauna cittadina è randagio. Mucche randagie, capre e maiali randagi. Si nutrono di tutto quel che trovano, golosi di carta non disdegnano la plastica. Così che vicoli larghi come braccia stese sono casa, e bagno, per animali da più di 500kg.
I passanti sfiorano le mucche e poi la propria fronte e il petto, nel segno di devozione Hindu, poi proseguono la loro via. Così è sempre stato e così sempre sarà, in nome di Shiva e in barba alla ragione. Ma proprio qui sta il fascino di Varanasi, nel suo essere ancora una città viva, ancorata alla propria anima e alle proprie radici. Nella sua immutabile originalità che (speriamo) nessuna modernità riuscirà a intaccare.