Il geografo e il viaggiatore si sovrappongono. Entrambi sono neutrali osservatori, per quanto possibile, di un territorio, di una cultura, come della storia comune di questi due aspetti.
Un atteggiamento in particolare unisce viaggiatore e geografo in modo unico. Questi sono i soli desiderosi di perdersi. Per ogni altro perdersi equivale, in senso figurato ad una disgrazia, in senso pratico ad un problema. Per il viaggiatore è invece una speranza, significa scavalcare un confine immaginario e divenire avventuriero. Mettere piede dove nessun altro ha posto il suo, o posare gli occhi su ciò che non è stato ancora visto, è ciò a cui il viaggiatore tende, ciò che egli desidera. Per il geografo, invece, perdersi è una necessità. Per poter generare una nuova mappa, una che prima della sua venuta non esistesse, esso deve abbandonare ogni altra mappa già tracciata. Se è incapace di perdersi, estraniarsi dai punti di vista già consolidati, sia sulla natura sia sulla cultura dei popoli che si trova a visitare, esso non sarà capace di portare a termine il suo compito.
Uno dei geografi più rappresentativi, Carl O. Sauer, indirettamente definisce così il rapporto tra il geografo e il viaggiatore: “The geographer and the goegrapher-to-be are travellers, vicarious when they must, actual when they may. They are not of the class of tourists who are directed by guide books over the routs of the grand tours to the starred attractions, nor do they lodge at grand hotels*”.
Non si viaggia per riposarsi, non si viaggia per svagarsi, ma per riempirsi la mente di osservazioni, analogie, contrapposizioni, storie. Non ci si reca solo nei luoghi belli e celebrati tali, ma un po’ ovunque, almeno quando possibile, ed anzi molte volte accade che siano i luoghi meno attraenti ad essere i più significativi per capire il paese in cui ci si trova.
Infine, si viaggia con un occhio alla mappa, con un itinerario in mente, ma solo per rivedere quest’ultimo lungo la via. Per ridisegnare quella mappa con vissuti e osservazioni da sovrapporre ai simboli che la costituiscono per natura. Così fa anche il geografo, come detto, che parte con una mappa in mente, ma deve scordarla per poter realmente osservare e tornare a casa con una nuova mappa, che dica qualcosa che in quella di partenza non c’era.
La mappa del geografo è prima di tutto una mappa fisica, che segna pianure e altipiani, catene montuose e scogli affioranti. Ma su questa si innestano poi storie più complesse, storie umane. Storie di eserciti schierati lungo confini contesi, confini non segnati dalla natura e quindi conquistabili. Storie di mandrie di bufali in migrazione, obbligati dai canyon lungo le praterie, con gli uomini al loro seguito. Tra le tante storie ne scelgo una che esemplifica bene l’intreccio di geografia fisica e cultura.
Nel 1960 Cina e Nepal discutono, in modo pacifico, la delimitazione dei loro territori, presentando ognuna una delineazione della linea di confine in relazione alla propria storia. Le due mappe presentate, ovviamente, non coincidono. In particolare, ognuna delle due sostiene che il monte famoso come Everest si trovi all’interno del rispettivo confine. Le motivazione addotte dalla Cina sono di tipo storico, legate al linguaggio popolare. Secondo loro il fatto che il nome cinese della montagna, Chomolungma, appartiene alla lingua corrente da secoli, identifica la montagna come maggiormente radicata nella cultura cinese rispetto a quella nepalese. Il Re del Nepal, Mahendra Bir Bikram Shah Dev, tramite il suo Primo Ministro, però, dichiara di non essere per niente d’accordo. I nepalesi sostengono quindi di rimando che il nome Sagarmatha identificava la montagna per i nepalesi almeno dagli anni ’30 del ‘900. Stavolta i cinesi non sono molto contenti, ma visto che la ri-delineazione dei confini ha lo scopo di celebrare i rapporti d’amicizia tra le due nazioni, questi accettano la mappa nepalese che pone la linea di demarcazione fra gli Stati al centro della montagna. Metà e metà insomma.
Il monte Everest è quindi ancora oggi diviso fra le due nazioni, ma non è questo ciò che conta in questo caso. Quel che è interessante notare è come la cultura locale, il linguaggio in questo caso e la presenza o meno al suo interno di una parole che identifichi l’oggetto della contesa, sia stato determinante per la mappatura del mondo. Questo esempio non è che uno tra i tanti. Ogni parte di mondo che sia contesa fra Stati vede una simile disputa, dove differenti versioni della Storia si contrappongono nella lotta per un confine.
Una montagna ha tanti strati di roccia quanti significati, e così ogni altra cosa. Nel senso che oltre a poter essere analizzata in un ottica meramente fisica, dalla geologia per esempio, e mappata in relazione a questa, ha altri mille modi di essere delineata. Il più interessante è vedere come questo suo lato fisico si sia intrecciato con la vita umana, obbligandola o al contrario essendone modificata, arricchendosi così di significati unici, immateriali ma vivissimi. Mappare la cultura, quindi, è dove il viaggiatore e il geografo si incontrano.
*From, The ducation of a geographer, Carl O. Sauer
Il processo di definizione reciproca tra cultura e linguaggio da un lato e natura fisica dall’altro ha conosciuto anche il procedimento inverso. Il concetto di Sublime, che sarà poi portato a precisione analitica da I. Kant nella seconda metà del ‘700, costituisce uno dei cardini dell’estetica moderna parallelamente al concetto di bellezza. Il Sublime è la grandezza che ci sovrasta, ci annienta nella nostra piccolezza, di ciò che non è contenibile in un solo sguardo. Gli oggetti così superiori alla nostra dimensione ci terrorizzano, ma così facendo creano in noi uno stato di attrazione tale da essere comparabile a quello della bellezza. La prima apparizione del concetto di Sublime nella letteratura moderna è negli scritti di alcuni intellettuali inglesi, in particolare John Dennis, Anthony Ashley-Cooper Conte di Shaftesbury e Joseph Addison, agli albori del ‘700. Le riflessioni di questi provengono in tutti e tre i casi dai loro viaggi verso l’Italia, nel così detto Grand-Tour. Il passaggio attraverso le Alpi, l’Himalaya europeo, nei loro diari genera inizialmente immagini di bellezza armoniosa, ma al crescere delle vette diviene un’enormità sconfinata e terribile, che comunica repulsione e piacere allo stesso tempo. Sublime, appunto, in una parola.